Sindrome di Vexas: che cosa sappiamo finora della malattia autoimmune

È una malattia autoimmune che colpisce principalmente il midollo osseo e il sangue. Secondo le ultime ricerche, potrebbe essere più diffusa di quanto si pensi e in particolare tra gli uomini over 50. La sindrome di Vexas è stata identificata per la prima volta nel 2020: è collegata a una mutazione somatica nel gene UBA1 nel midollo osseo. Di recente uno studio ha rivelato altri fattori su questa patologia particolare.

Microscopio laboratorio
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Sindrome di Vexas: che cosa si era scoperto

La mutazione del genere era stato identificato in un gruppo di pazienti che non erano in grado di ottenere una diagnosi chiara o un trattamento efficace per una varietà di sintomi che stavano riscontrando. Una ricerca pubblicata nel dicembre 2020, sul New England Journal of Medicine, riportava anche il nome di questa malattia: sindrome di Vexas, acronimo di vacuoli (nelle cellule del midollo osseo), enzima E1 (legato al cromosoma X), autoinfiammatorio e somatico. Cioè le caratteristiche chiave della sindrome.

Un’altra delle peculiarità di questa sindrome è che essa è difficile da definire. La malattia ha una vasta gamma di sintomi che spesso imitano altre patologie e un potenziale paziente viene spesso ed erroneamente classificato sotto una di queste. Tra i sintomi presentati ci sono infatti febbre e stanchezza estrema, ma anche eruzione cutanea, gonfiore di naso e orecchie, infiammazioni alle articolazioni, ai polmoni e persino ai vasi sanguigni.

Cosa rivela il nuovo studio?

La sindrome di Vexas può causare l’infiammazione di diversi organi e articolazioni. I ricercatori dello studio pubblicato in questi giorni sul Journal of the American Medical Association (JAMA) hanno cercato di identificarne la prevalenza nella popolazione. Sebbene sia ancora rara, i ricercatori hanno concluso che può colpire fino a un uomo su 4.269 e una donna su 26.238, entrambi di età superiore ai 50 anni, molto più del previsto per una patologia appena scoperta.

Provetta laboratorio
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Per la nuova ricerca sono stati analizzati oltre 163mila pazienti della Pennsylvania. Tra loro: undici presentavano la variante del gene UBA1 (due donne e nove uomini) e presentavano sintomi coerenti con la sindrome. Si può dunque concludere che una persona su 13.591 può avere questa malattia.

Che terapie esistono?

I pazienti di questa sindrome possono assumere farmaci antinfiammatori chiamati glucocorticoidi: aiutano a gestire i sintomi, anche se non sono da escludere possibili effetti collaterali. Quando per esempio la malattia si presenta in forma grave può causare coaguli di sangue, anemia, affaticamento e piastrine basse, talvolta anche tumori nel sangue. Un trattamento potenzialmente efficace è perciò il trapianto di midollo osseo.

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