Ci sono diverse forme di dipendenza, con alcune di queste abbiamo più familiarità, perché concrete, visibili e più comuni nel mondo occidentale: la dipendenza da droghe, gioco d’azzardo, cibo o shopping, ma queste non sono le uniche trappole in cui si può cadere. Come dimostrato da diversi studi, infatti, il nostro cervello può essere anche dipendente dalla produttività. Una persona vuole ottenere un riconoscimento nel proprio ambiente lavorativo, come un aumento di stipendio, e una volta ottenuto, vuole sempre di più, fino a non riuscire più a controllare il desiderio insoddisfatto, sviluppando una vera e propria sorta di astinenza, che comporta l’aumento di ansia, depressione e paura.
Questa situazione può portare l’individuo a protrarre comportamenti di tipo compulsivo, dannosi per sé stessi e per chi lo circonda. La principale problematica di questo tipo di dipendenza, tuttavia, è che contrariamente all’abuso di droghe, o alla ludopatia ad esempio, l’essere produttivi risulta un tratto positivo nella nostra cultura, basata spesso sull’ottenimento di obiettivi meramente materiali, incoraggiando per questo una persona a dedicarsi costantemente al proprio lavoro.
Un fenomeno che ha analizzato lo studioso Sydney Cyril Preupion dividendo in tre diverse tipologie la produttività portata all’estremo, classificandole nell’ossessivo dell’efficienza, il produttivo egoista e l’ossessionato dalla quantità. Per quest’ultimo il rischio di burnout è altissimo, poiché la persona affetta da questo disturbo cerca di compiere più attività possibili, convincendosi che fare di più sia fare meglio. Per quanto riguarda il produttivo egoista è colui che rifugge ogni tipo di collaborazione, mentre per quanto riguarda l’ossessivo dell’efficienza, vige nel loro modo di lavorare un grande ordine, ma spesso confonde l’efficienza con l’efficacia.
Uno dei principali fattori che dimostra come l’ossessione della produttività sia ormai radicata nella nostra società, è come spesso ci si ritrovi nel terrore di “perdere del tempo”. La nostra tendenza è infatti quella di classificare le attività tra improduttive e produttive, limitando al massimo le prime, come può essere semplicemente condividere del tempo con i propri cari o amici, rischiando così di rovinare i rapporti più importanti delle nostre vite. Un altro fattore che, inevitabilmente, negli ultimi anni è diventato sempre più preponderante nei rapporti lavorativi è quello relativo all’utilizzo di smartphone e affini, in un mondo iperconnesso dove il lavoratore non stacca mai davvero dal proprio lavoro, risultando di fatto sempre reperibile e mai in grado di ritagliarsi del tempo per sé e per ciò che lo rende felice, impedendogli, di fatto, di vivere realmente nel presente.
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