Siamo continuamente bombardati da stimoli, esperienze e informazioni: colori e profumi, oggetti e presenze, sguardi e gesti. Ogni attimo è ricco di dati che il cervello carpisce e assorbe, così come quelli che raccoglierebbe un cellulare se ad ogni secondo facessimo una foto a ciò che ci circonda – una tendenza familiare in effetti, non è vero?
Ad ogni modo, molti dati dell’infinita quantità che immagazziniamo scivolano via, vanno nel famoso “dimenticatoio”, ma altri restano. Alcuni restano per poco, altri vengono scolpiti per sempre in quella roccia friabile della nostra memoria, una fedele compagna d’avventure che a volte è solita venirci in aiuto, altre ci fa brutti scherzi. Sì perché la memoria non è affatto una macchina fotografica, ma un pentolone dove finiscono e vengono rimescolati molti ingredienti della nostra vita.
Ma come funzionano, precisamente, i ricordi? Chi decide quali restano e quali no? Perché capita di commuoversi alla vista di un mazzo di carte perché il nonno era solito giocarci, o di ricordare eventi capitati quando eravamo piccolissimi solo quando qualcuno ce li rammenta, o di confondere un ricordo con un altro? C’è una spiegazione a tutto.
Persino al déjà-vu, il quale non è altro che uno scherzo della memoria: nessuna premonizione. La sensazione di aver già vissuto ciò che sta capitando per la quale tanti pensano di avere doti di chiaroveggenza è solo un bel cortocircuito causato dai nostri ricordi. Vediamo insieme il funzionamento di alcuni fenomeni.
Nonostante ci possa sembrare una definizione adatta: i ricordi non sono fotografie. Ce lo spiega Stefano Cappa, direttore del Centro ricerca demenze della Fondazione Irccs Mondino di Pavia e membro della Società italiana di neurologia: “Immagazziniamo tracce di quanto viviamo, che poi ricostruiamo formando il ricordo. C’è perciò sempre una rivisitazione dell’esperienza”. Questo significa che da un lato sicuramente immagazziniamo fotografie, ma dall’altro le modifichiamo ogni volta che le ricordiamo.
Un ricordo dunque, più che una traccia di “verità” passata, è un prodotto architettato dalla nostra mente, in cui essa ci mette del suo. “La fedeltà delle memorie all’episodio reale varia sulla base di tanti elementi, tra cui per esempio le emozioni provate. Se sono state intense, nel bene o nel male, è più probabile che la traccia di quanto vissuto si rinforzi e resti a lungo”, continua a spiegare il neurologo.
Un ricordo quindi, quando è animato e non solo un “fermo-immagine”, non è un film preciso di quel che è stato, anzi, tende spesso a distaccarsi dalla realtà. Quando ad esempio viviamo qualcosa di molto negativo, il cervello si aggrappa ad altro e sposta l’attenzione sui dettagli. “Per questo è spesso difficile recuperare i ricordi precisi di eventi traumatici”, dichiara Coppa, facendoci così tornare alla mente tutte le volte che davanti ad una domanda preoccupata da parte di un caro del tipo “Ehi ma com’è successo?” noi abbiamo spesso cominciato la risposta successiva con un “Non lo so, c’era un…”, per poi descrivere qualche dettaglio di un trauma vissuto.
Questo succederebbe grazie ad un meccanismo di difesa che Daniel Gilbert, dell’Università di Harvard, ha chiamato il “sistema immunitario psicologico“, tramite il quale il nostro cervello opera la rimozione di ricordi negativi a favore del rafforzamento di quelli positivi che, da quanto dimostrato, permangono più a lungo nella nostra memoria rispetto agli altri. Con questo sistema la mente cerca di proteggerci dalle brutte esperienze, così che smettano di farci male.
Abbiamo finora capito che la memoria non è una macchina da presa. La possiamo invece paragonare a pieno diritto ad un registratore soggetto a una miriade di interferenze, interne ed esterne.
Ad esempio, se qualcosa ci incuriosisce, è più probabile che lo ricorderemo, mentre se durante un evento qualsiasi siamo distratti, il ricordo si fisserà per meno tempo e più difficilmente nella nostra mente. È per questo che se stiamo parlando al telefono mentre rientriamo a casa, è molto probabile che ci scorderemo dove abbiamo appoggiato le chiavi una volta entrati. Infine – e questo è un fenomeno molto noto – se nell’aria c’è un profumo specifico mentre viviamo un momento felice, è verosimile che annusandolo di nuovo ci tornerà alla mente quell’attimo piacevole.
Questa tendenza accade anche grazie ad altri stimoli presenti al momento che entrerà nella nostra memoria, ma si acuisce soprattutto per quanto riguarda i profumi. Un altro studio proveniente da Harvard attesta che le aree cerebrali che elaborano gli odori sono vicinissime a quelle coinvolte nella memoria e nella gestione delle emozioni. L’olfatto, quindi, è in cima alla classifica come senso più capace di risvegliare le nostre memorie, anche nel caso di ricordi molto lontani.
Tuttavia, anche una canzone, o un vestito, o un pattern di colori possono far improvvisamente riaffiorare un ricordo, anche nei momenti in cui “la storia” riportata alla mente non ha niente a che vedere col presente.
Succede perché: “Non ricordiamo mai un oggetto o un elemento dell’esperienza da solo, ma sempre in un contesto“, specifica Cappa; “abbiamo cioè una memoria episodica, per cui un dettaglio anche minimo presente sulla scena funziona come gancio contestuale, da cui possiamo recuperare tutta l’informazione relativa all’evento”.
Ci dispiace ora sfatare il mito di un meccanismo incantato, quasi magico: quello del déjà-vu, il cui nome deriva dal francese si traduce letteralmente con “già (déjà) visto (vu)”.
Il déjà-vu può essere considerato una conseguenza di interferenze della memoria, quelle che accadono quando abbiamo tipicamente la “testa altrove”. Un esempio di interferenza molesta è quando incontriamo qualcuno in un posto inusuale e stentiamo a riconoscerlo perché tutto attorno ci dice che quella non dovrebbe essere lì, semplicemente perché in quel posto non l’abbiamo mai vista.
Anne Cleary, psicologa della Ohio State University (USA), ha dimostrato che nella sensazione per cui ci sembra di aver già vissuto qualcosa non c’è nessuna premonizione, ma semplicemente ci si viene a trovare in uno scenario simile a qualcosa che ci è già successo. A livello inconsapevole il ricordo c’è, ma non riesce a emergere nitidamente nella coscienza, anche se il cervello riconosce la somiglianza. Questo meccanismo ci porta a pensare di essere già stati in un posto o aver già vissuto una circostanza, senza però poter stabilire quando o perché.
Il déjà vu è perciò una “metamemoria”, ossia un ricordo confuso del ricordo, il quale può essere anche indotto. Cleary lo ha fatto in alcuni volontari, e poi ha esaminato se il fenomeno fosse veramente associato alla capacità di prevedere quel che sarebbe accaduto di lì a poco, scoprendo che aiuta a predire il futuro quanto… lanciare una monetina.
Esistono tanti altri fenomeni di cui la memoria è protagonista e noi le vittime o gli spettatori piacevolmente sorpresi, questo perché essa è sicuramente uno dei “motori” più affascinanti della nostra mente, e capirne la velocità e gli ingranaggi porta sempre a risposte interessanti. L’alternativa, è continuare ad essere stupiti dai nostri ricordi e dai meccanismi più strambi che questi possono verificare, senza spoiler e precauzioni.
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