Le microplastiche sono dei piccoli pezzi di materiale plastico diffusi nell’ambiente. Attualmente non esiste una definizione univoca a livello internazionale e il termine indica una miscela di materiali di forme diverse – frammenti, fibre, sfere, granuli, fiocchi – e con dimensioni che vanno da 1 micrometro a 5 millimetri.
In base alla loro provenienza si distingue tra microplastiche primarie e secondarie. Le prime vengono aggiunte intenzionalmente ad alcuni prodotti e finiscono poi direttamente nell’ambiente. Si trovano ad esempio in prodotti per il viso e per il corpo (trucchi, detergenti, dentifrici), nelle vernici, nelle paste abrasive e nei fertilizzanti. Vengono usate per le loro proprietà abrasive e leviganti o in funzione di alcune caratteristiche del prodotto (come spessore, aspetto e stabilità). Si stima che questa categoria di microplastiche rappresenti il 15-31% delle microplastiche presenti nell’oceano. In Italia dal 2020 è stata vietata la vendita e la commercializzazione di cosmetici da risciacquo, come saponi, creme, gel esfolianti e dentifrici, contenenti particelle plastiche.
Le microplastiche secondarie sono quelle invece derivanti dai processi di deterioramento di oggetti in plastica più grandi, come sacchetti, bottiglie o reti da pesca. Infatti, la plastica che finisce nell’ambiente viene sottoposta a processi di degradazione molto lenti dati da luce, processi termo-ossidativi o di biodegradazione che portano alla frammentazione del materiale in pezzi inferiori ai 5 millimetri. Ma le microplastiche secondarie derivano anche dal lavaggio, soprattutto in lavatrice, dei vestiti in materiale sintetico (responsabili per ben il 35% delle microplastiche presenti in ambiente marino) e dall’usura degli pneumatici durante la guida. Le microplastiche secondarie rappresentano circa il 68-81% delle microplastiche presenti nell’oceano.
Le quantità di microplastiche presenti negli oceani sono in aumento, anche a causa del fatto che sono troppo piccole per poter essere trattenute dai sistemi di filtrazione e depurazione delle acque reflue. La concentrazione in ambiente marino è pari a circa 102.000 microplastiche per metro cubo, ed è ancora più elevata nelle zone vicine ai siti di smaltimento rifiuti, agli impianti di trattamento delle acque, ai porti. Ma la contaminazione riguarda anche le acque dolci, i sedimenti, il terreno e l’aria, anzi diversi studi suggeriscono che il loro inquinamento possa essere maggiore rispetto a quello dei mari. Le microplastiche presenti nell’aria all’esterno derivano principalmente dalle particelle rilasciate dagli pneumatici delle auto o delle moto nel traffico. Le fibre dei tessuti sintetici, invece, costituiscono la principale fonte di esposizione negli ambienti chiusi.
Le microplastiche presenti in mare possono essere inghiottite dagli animali marini e attraverso la catena alimentare arrivare nel nostro cibo. Secondo dati diffusi dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) nei pesci la concentrazione varia da 1 a 7 microplastiche per pesce, nei gamberi è di 0,75 per grammo e nei bivalvi tra 0,2 e 4 per grammo. Dunque una porzione da 225 grammi di cozze (che vengono consumate senza la rimozione dei visceri, principale sito di accumulo delle particelle plastiche), considerando la più alta concentrazione rilevata, porterebbe a ingerire 900 pezzi di microplastiche.
Ma tali particelle sono state rilevate anche in alimenti come miele e sale, anche se in misura molto minore, e nelle bevande, comprese birra, acqua in bottiglia (94,37 microplastiche per litro) e acqua del rubinetto (4,23 per litro). Inoltre le farine di pesce utilizzate come mangimi per animali come polli e suini potrebbero contribuire a un’ulteriore diffusione delle microplastiche fuori dall’ambiente marino. Non stupisce quindi che particelle di plastica siano state trovate nelle feci umane in maniera diffusa e variegata: uno studio condotto su un piccolo gruppo di volontari provenienti da tutto il mondo ha dimostrato la presenza di almeno 20 diversi tipi di microplastiche in 10 grammi di feci. Polipropilene e polietilene tereftalato erano presenti in tutti i campioni analizzati.
Gli effetti sulla salute sono ancora ignoti. I rischi sono di natura fisica (per via delle ridotte dimensioni potrebbero attraversare le barriere biologiche e causare danni diretti) e di natura chimica, per via degli additivi e di altre sostanze potenzialmente tossiche utilizzate nei polimeri (per modificarne il colore o le proprietà meccaniche, per migliorarne le prestazioni, la resistenza al calore, al fuoco, ai raggi ultravioletti, all’invecchiamento). Infatti le microplastiche possono assorbire sulla loro superficie contaminanti chimici e contenere sostanze come alluminio, titanio, bario, zolfo, ossigeno e zinco. Attualmente esistono pochi dati sulla presenza e concentrazione di metalli nelle particelle di plastica. I danni possono riguardare il sistema endocrino, la sfera riproduttiva e il metabolismo, ed essere determinati sia da un’esposizione nel grembo materno sia durante prima infanzia e pubertà.
Inoltre le microplastiche possono essere veicolo di batteri vettori di malattie come Escherichia coli, Bacillus cereus e Stenotrophomonas maltophilia (rilevati in microplastiche al largo del Belgio).
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